Quel giorno tu sarai

L'olocausto, la memoria, le conseguenze dell'essere sopravvissuti ad esso, il razzismo di oggi. Tanti temi importanti per un film in cui la forma è sostanza.

di EMILIANO BAGLIO 10/02/2022 ARTE E SPETTACOLO
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Il nuovo film di Kornél Mundruczó potrebbe essere preso come esempio perfetto del fatto che la forma è sostanza.

Per quanto riguarda la forma, come nel precedente Pieces of a woman (http://www.euroroma.net/9703/ARTEESPETTACOLO/pieces-of-a-woman.html) a prevalere sono l’uso del piano sequenza e della camera a mano.

Prendiamo il primo dei tre episodi in cui è suddiviso Quel giorno tu sarai.

Data l’assenza di stacchi (non ci interessa se vera o artificiosa) sono i frenetici movimenti di macchina a stabilire il ritmo della sequenza ed il montaggio interno alla stessa e soprattutto, cosa ancora più importante, ad imporre allo spettatore un preciso punto di vista che coincide con la macchina da presa stessa e dunque con l’occhio del regista.

Come ne Il figlio di Saul, l’ambiente circostante è praticamente assente dall’inquadratura, la scena si svolge in un unico ambiente ed i dialoghi sono ridotti al minimo.

Si tratta certo di scelte estetiche alle quali però, dato l’argomento, coincidono altrettante scelte etiche.

Il secondo episodio, anch’esso ambientato in un unico luogo chiuso, è invece costruito interamente sui dialoghi e sull’alternanza dei due personaggi protagonisti della vicenda.

Infine, l’ultimo episodio, si apre finalmente al mondo esterno e, dal punto di vista registico, è il più tradizionale.

All’interno di queste precise scelte registiche l’autore immette una serie di temi importanti.

Il senso del film sta nello stesso titolo internazionale, Evolution.

In fondo Quel giorno tu sarai è innanzitutto la storia di una famiglia attraverso tre diversi momenti e ne segue la parabola ed appunto la sua stessa evoluzione.

Si parte con l’orrore supremo, con ciò che non può essere mostrato, con l’Olocausto.

Tre uomini entrano in una stanza e cominciano a disinfettarla. Non sappiamo dove siano, le inquadrature sono strettissime, la telecamera ne segue freneticamente i movimenti ed i tre non parlano mai.

Tutto è lasciato all’intuito dello spettatore che deve ricostruire il senso di ciò che vede attraverso degli indizi, primi tra tutti quelle docce così familiari e sinistre.

Éva è l’episodio più intriso di simboli, a cominciare da quei capelli che cominciano ad uscire fuori dai muri e dal pavimento sino all’ambiente che comincia letteralmente a cadere a pezzi con l’acqua comincia a filtrare da sotto le lastre di cemento.

In questo scenario apocalittico da incubo il pianto di una bambina.

La ritroviamo anni dopo oramai anziana in Léna, episodio che anch’esso si chiude simbolicamente con un’inondazione.

Ancora una volta l’acqua che invade lo spazio, forse a purificarlo e a lavarlo.

Al centro del dialogo tra la madre (Éva) e la figlia (Léna) c’è uno dei temi meno affrontati rispetto all’olocausto ovvero come quell’esperienza abbia inciso sulle vite dei sopravvissuti e come abbia a sua volta influenzato le vite dei parenti.

C’è tutto in questo piccolo episodio in cui sono i dialoghi a dirigere l’azione.

Una bambina figlia di una sopravvissuta ai campi di sterminio, la sua infanzia all’ombra di ciò e come questo abbia a sua volta influenzato il suo essere madre.

Il rapporto madre-figlia ed un attacco spietato all’Ungheria.

Eppure, in questa parabola, quando arriva la fine con Jónás, Mundruczó trova la forza per darci un po’ di speranza.

Forse è vero che questo è l’episodio più debole e didascalico.

Al centro il figlio di Léna a chiudere questo racconto che attraversa quattro generazioni.

Accanto a lui, nipote di sopravvissuti all’olocausto, una compagna di scuola con il velo come in un triste passaggio di testimone del razzismo e dell’odio più che, come qualcuno ha suggerito, in un tentativo di affrontare il problema mediorientale.

La speranza di  Mundruczó è affidata a questi due giovani, che possano essere capaci di superare le differenze ed annullarle con quell’ultimo bellissimo gesto di amore.

EMILIANO BAGLIO


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